#SpazioTalk, Mattia Viel non rinnova e lancia il suo progetto gravel: “Voglio essere pioniere e portarlo in Italia”
Mattia Viel è pronto per una nuova vita, sempre nel mondo del ciclismo. Il torinese non ha rinnovato il proprio contratto con la Drone Hopper-Androni Giocattoli, team che lo ha portato nel professionismo, e si è trovato senza una squadra in cui correre per questa stagione. Senza perdersi d’animo, il 26enne ha scelto di intraprendere un percorso del tutto diverso, senza chiudere del tutto la porta alla strada. Come ha spiegato in un’intervista esclusiva ai nostri microfoni, anticipata (in parte) nella puntata di SpazioTalk, ha infatti deciso di dedicarsi al progetto gravel e di aiutare il suo sviluppo in Italia, dove non ha ancora ricevuto l’attenzione mediatica dedicata all’argomento (per esempio) in America e in Sudafrica. L’idea del piemontese, come raccontato a SpazioCiclismo, è innovativa e originale.
Com’è la tua situazione contrattuale? Non hai rinnovato con la Drone Hopper?
No, non ho rinnovato con loro per una serie di motivi. Compreso lo stage, avevo già corso quattro anni con loro. Dopo quattro anni, posso anche capire che volessero cambiare, anche magari per l’arrivo del nuovo sponsor che può aver influenzato il mercato. Accetto il non rinnovo, ma per ora non ho avuto altri contratti in Italia. La Zabù ha chiuso, la Bardiani ha fatto un mercato più per giovani. Poi c’è solo la Eolo-Kometa, per un italiano è difficilissimo correre in una ProTour all’estero. Si contano davvero sulle dita di una mano. Per il World Tour è un altro discorso, ma bisogna essere realistici. Ho corso all’attacco, sono andato spesso in fuga, ma non ho mai preso in considerazione quest’ipotesi perché non è mai stato possibile. E per continuare le Professional le opzioni erano limitate.
E in Continental, invece?
Avrei accettato di ripartire con una Continental, sono stato il primo a dirlo al mio procuratore. Sarei contento di fare uno step indietro per poi magari farne due davanti. Tante squadre però hanno preso mazzate economiche per il coronavirus. Le Continental hanno già uno svantaggio rispetto alle ProTour, quindi fanno più fatica. Anche loro quindi si sono dovute adattare a fare un mercato più giovane.
E poi ci sarebbe anche una questione economica, di contratto.
Sì. Un giovane, pur di passare semiprofessionista con una Continental e mettersi in mostra, accetta anche compromessi a livello economico, anche perché magari vive con i genitori. Con il passato che ho fatto, però, essendo anche partito con una Continental, ho pensato di tornarci a due condizioni: la prima era il calendario, ho bisogno di potermi esprimere. E poi l’aspetto economico. Non per una pretesa, mi sarei anche adattato. Uno fa anche compromessi, ma sotto un certo limite non posso andare. Ho una casa, ho delle spese, durante il coronavirus ho investito su una mia attività con la mia ragazza. Non riuscirei ad andare avanti solo con un rimborso spese. E ora è difficile che una Continental faccia investimenti a lungo termine.
Quindi cosa hai deciso di fare?
Ho pensato di dover trovare un piano B. In parte lo avevo già, perché durante la pandemia, insieme alla mia ragazza, ho aperto un’attività, la Bike Kinetic, che si occupa di riabilitazione, preparazione, trattamenti di vario tipo. La mia ragazza fa un lavoro equivalente a quello del fisioterapista. Però mi sono anche detto: “Ho iniziato a correre quando avevo dieci anni, ne ho diciassette di esperienza in bicicletta. Buttarli via sarebbe un peccato”. Il ciclismo mi ha dato tantissimo e mi ha aiutato tantissimo. Da piccolo ho perso la mamma e la bicicletta mi dava quella sensazione di libertà, di sfogare le tensioni, tutto ciò che può valere nel mondo amatoriale per chi ha un altro lavoro. Io ne avevo già bisogno da bambino. Ho sempre avuto un legame particolare con la bicicletta. Quindi non volevo fare un lavoro d’ufficio.
Hai pensato di tornare alla pista?
Sì, ma mi sono detto che qualche anno fa sarebbe potuta essere una scommessa. Ora siamo campioni del mondo e campioni olimpici, se già la Federazione fa fatica a trovare sponsor dubito che io, un signor nessuno, possa fare qualcosa di concreto. Quando ero in Sudafrica, Paese d’origine della mia ragazza, ho iniziato ad appassionarmi al gravel. Ne ho parlato con Mattia De Marchi, il primo a credere un po’ nel gravel e a farlo un po’ seriamente. Sapevo che aveva esperienza nel settore e gli ho chiesto qualche informazione. Ho iniziato ad avviare il mio progetto gravel, con l’obiettivo di sviluppare una squadra. Ma era già dicembre, era difficile farlo in un mese. Ho parlato con alcune aziende intanto e ho visto che l’interesse per il gravel c’è, sia per le federazioni sia per le aziende. Si inizia a parlarne anche in Europa.
L’UCI ha una riunione programmata proprio per discuterne.
Esatto, il 25 gennaio. Stanno decidendo se farla diventare una disciplina UCI. Se dovessero farlo, ci sarebbero i punti, una classifica, prove specifiche. Darebbe un’accelerata importante. Diversi contatti mi hanno confermato che in America è già una realtà di valore. In Europa ci saranno forse una decina di eventi di rilievo, magari una quarantina in tutto. In America hanno un calendario di 268 corse, che sono già corse vere.
Alcuni corridori su strada sono già passati al gravel.
Per esempio Peter Stetina, ex Trek. Ma anche Ian Boswell, il mio ex compagno di squadra Freddy Howes, di recente Nathan Haas. In Italia c’è già la figura di De Marchi, lo stimo per quello che fa. Ma per le aziende può fare rumore che qualcuno passi direttamente dal professionismo su strada al gravel. Ho visto un po’ di numeri e ho parlato con le aziende, il progetto sarebbe creare una community prima in Italia, poi in Europa relativa a questa nuova disciplina. Per le aziende ci possono essere opportunità in più.
Di gravel si parla anche per una questione di sicurezza, rispetto alla strada.
Se io fossi un padre, avrei paura di mettere in bici mio figlio sulle strade, con tutti i camion e gli incidenti di cui si parla. Si possono creare gruppetti anche nelle giovanili. E la passione non viene snaturata. Mountain bike e pista, per esempio, sono molto più tecnici. Il gravel secondo me è un buon compromesso.
Come sta andando la tua ricerca?
Ho visto che l’interesse c’è, qualche azienda mi ha già ricontattato. Spero che questa fase si concretizzi tra uno, due o tre mesi. Il calendario gravel però è ancora un po’ povero e io non ho ancora grandi sponsorizzazioni. Il progetto mi piace e ho visto che l’interesse c’è. Quindi mi sono chiesto quale potesse essere la maniera migliore per continuare. Credo che la risposta sia avere una squadra Continental a mio supporto. In questo caso accetterei anche un piccolo rimborso, che non sia uno stipendio, di fare le corse professionistiche élite in Italia, aiutare i giovani, in cambio della possibilità di sviluppare il mio progetto gravel. A fine anno quindi potrei dire: “Ok, ho avuto la mia fortuna che una squadra Continental ha puntato su di me, e magari mi sono rilanciato. Se non dovesse andare bene come risultati, li avrei comunque aiutati con i giovani e con cose come i contatti con le aziende”. Avere una Continental che mi supporti sarebbe l’ideale. Sarebbe interessante perché le Continental non hanno quelle 60/70 corse di una squadra professionistica, ma ne hanno 20/30. Quindi alla fine tra strada e gravel avrei un calendario completo, competitivo e anche stimolante, perché vario. Le parole chiave del mio 2022 saranno opportunità e progetto.
Una Continental senza gravel invece non è un’ipotesi?
A 27 anni cosa fai? Vai a correre per 500 o 600 euro al mese per fare venti corse all’anno, in cui non sei mai competitivo. Vai alla Pantani, all’Agostoni, in cui ci sono squadre World Tour super competitive con 80 corse nelle gambe. Il gravel invece ad oggi non lo fa nessuno. Così spero di dare visibilità non solo a me, ma a tutto il movimento e alla disciplina. Anche per le aziende che vogliono investirci. Sarei contento poi se investissero in qualcos’altro ma sempre nel ciclismo e nel gravel. Potrei dire di essere uno dei primi ad averci creduto. Sono dell’idea che se arrivi alle cose quando sono già conosciute, è tardi. Mi sto impegnando per rimboccarmi le maniche su qualcosa di nuovo.
Sei già in contatto con qualche formazione specifica?
C’è qualcuno a cui l’idea può piacere, anche perché può attirare sponsor. A breve dovremmo parlarne in maniera più approfondita. Sono contento che ci sia un’apertura mentale, a me interessa che sia un dare e un avere da entrambe le parti. So di poter dare qualcosa a loro per la strada.
Perché hai deciso di puntare così tanto sul gravel?
Lo faccio perché ci credo, ho una grande passione per questo sport. Così i giovani, invece di pensare solo al ciclismo e a pedalare, magari vedono che anche se non arrivano al World Tour possono avere un posto nel ciclismo. Se nessuno si impegna, il ciclismo in Italia andrà a morire. Sono il primo a sapere che è un investimento, ma sono convinto che se uno ci crede, si sbatte e ha le conoscenze giuste i risultati arrivano. Non arrivano solo se rimani sul divano ad aspettarle. Cerco sempre di pensare positivo.
Hai qualche rimpianto per la tua carriera su strada?
No. Chi è andato avanti, finora, andava più forte di me. Poi certo, spesso mi sono messo a servizio degli altri. Ho sempre tirato, ma il ciclismo odierno è abbastanza spietato: o vinci o sei uno dei tanti, non ha senso arrivare ventesimo. Preferisco fare corse all’attacco o mettermi a disposizione della squadra piuttosto che fare un piazzamento mediocre. Tanto il naso davanti te lo mettono quasi tutte le World Tour, quindi sono già 10/15 corridori davanti. Poi magari qualcuno delle Professional. Quindi per arrivare ventesimo… La mia idea è quella, ho sempre cercato di farmi conoscere in qualche modo. Sono andato in fuga alla Milano-Sanremo, ai campionati italiani, al Tour de la Provence, in Andalucia. Non ho rimpianti. Quello è il mio livello nel professionismo, se non è sufficiente è inutile stare lì come una macchina che slitta sul fango. Preferisco puntare su un altro progetto.
Non pensi all’eventualità del ritiro su strada?
No, non è nei miei piani. Punto sul mio progetto e sono convinto che qualcosa tornerà indietro. Se avrò ragione, sarò considerato uno dei pionieri del gravel in Italia e uno dei primi professionisti a prendere questa sfida, altrimenti potrei dire che ho cercato di dare qualcosa al ciclismo, un po’ di novità e di spirito dato da una mente giovane.
In conclusione, vuoi lanciare un messaggio a tutti gli appassionati di ciclismo?
Voglio che questo progetto sia un messaggio per chi magari smette di andare in bici e accetta condizioni in cui perde la propria identità, perché vede il ciclismo o la squadra professionistica come unica possibilità. Ma ci sono un sacco di cose che si possono fare, se uno ci crede veramente. Voglio che sia anche un messaggio per dire che il mondo è bello perché è vario. È bello anche che nel mondo ci siano delle novità. Il gravel può arrivare qua, ma se uno non ci crede non avrà mai un’opportunità. Penso che questo, essendo io giovane, sia un messaggio per i giovani. Ci dicono sempre che siamo un Paese vecchio: dimostriamo il contrario. Le potenzialità ci sono, basta tirare fuori gli attributi e crederci.
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